Intervista FIC – Tiziana Nisini – Sottosegretario al Ministero del lavoro e delle politiche sociali
In una recente intervista con il Responsabile Dipartimento Lavoro FIC, Giuseppe Ferraro, abbiamo affrontato il tema della carenza di personale tra camerieri di sala, cuochi, aiuto cuochi, pizzaioli e baristi. Seppur riconoscendo un’eccellente ripresa del settore in questa stagione turistica, lo stesso Ferraro ha riportato la denuncia della categoria circa le difficoltà nel reperire le risorse necessarie. A riguardo la FIPE, sul finire dello scorso anno, segnalava la mancanza di circa 40 mila professionisti, numero che per il dirigente FIC potrebbe essere ancora più elevato.
Cosa sa dirci a riguardo? Che giudizio darebbe a questa estate ormai conclusa? Il Ministero ha avuto modo di intercettare malcontenti simili?
Purtroppo il tema è ancora molto attuale ed estendibile a diversi settori. Ma le cause vanno ricercate principalmente in quella misura che mi sento di definire come il peggior nemico per gli imprenditori: il reddito di cittadinanza. Arrivato al suo quarto anno, era nato nel 2019 in realtà come misura sperimentale triennale. È stato sì un aiuto durante la pandemia ma ha creato, allo stesso tempo, un vero e proprio corto circuito nel mondo del lavoro.
Il principale problema riscontrato è stato quello della mancanza dei controlli. Infatti, non si ha contezza di chi sta percependo il reddito e del reale bisogno del percettore. L’inefficacia dei controlli, sia a monte che a valle, è sempre stato il tallone di Achille della misura. Ogni giorno si scoprono truffe, basti pensare alla notizia recente di 6 milioni di euro ai danni dello Stato, scoperta dalla polizia municipale di Torino, percepiti illecitamente da persone non residenti in Italia che non avevano il diritto. Sono state indagate 960 persone, tra cui 330 cittadini romeni, che hanno dichiarato documenti falsi e residenze inesistenti per ottenere in maniera illegittima il sussidio economico. O del controllo effettuato a Napoli dai carabinieri con la collaborazione di Inps da novembre 2021 ad aprile 2022, da cui è emerso che su 1.167 nuclei familiari e 2.300 persone controllate 1.204 persone hanno indebitamente percepito il reddito di cittadinanza, generando un danno all’erario di oltre 6,5 milioni di euro. Si potrebbe continuare ancora a lungo con l’elenco delle truffe e dei percettori non aventi diritto.
Accanto al problema dei truffatori e degli indebiti percettori, ci sono i mancati inserimenti nel mondo del lavoro dei beneficiari ritenuti attivabili. Oggi il sussidio raggiunge 3 milioni di persone, 1,2milioni di nuclei. Gli occupabili sono più di un milione, ma quelli presi in carico dai Centri per l’impiego risultano essere meno della metà, ossia 400 mila.
Inoltre, secondo il rapporto “La condizione occupazionale dei beneficiari RdC” dell’Anpal (30 sett. 2021), una buona parte della platea di beneficiari indirizzati ai Centri per l’impiego ha caratteristiche di occupabilità. Quanto a coloro che hanno avuto un’occupazione nei tre anni precedenti, in un quarto dei casi si tratta di disoccupati di lunga durata. I beneficiari indirizzati ai Cpi che hanno sottoscritto un Patto per il lavoro sono poco più del 40% e sono collocati soprattutto a Nord. Il tasso di occupazione dei beneficiari all’ingresso nella misura è poco meno del 18% e a sei mesi di distanza dalla prima erogazione del beneficio raggiunge quasi il 23% per mantenersi su questo livello anche a 12 mesi. Il dato più significato è che il 70% dei percettori recepisce dalla nascita della misura il sussidio.
I centri per l’impiego non hanno dunque assolto la loro funzione per le politiche attive, mentre sono diventati uffici meramente amministrativi. Occorre, quindi, attivare una banca dati unica di domanda e offerta di lavoro così da tracciare tutte le opportunità, comprese quelle che arrivano dal privato.
Per la Federazione, tra i motivi che spingono i giovani professionisti – e non solo – ad abbandonare il settore c’è la riscoperta del proprio tempo a causa della pandemia. Il cuoco infatti è un mestiere che, oltre ad essere fisicamente impegnativo, comporta sacrificare weekend e festività. In aggiunta, la ristorazione è un comparto in cui si ha ancora un massiccio ricorso a pratiche come nero e dumping contrattuale, con offerte a ribasso ai danni del lavoratore.
In questo scenario, quali iniziative intende promuovere il Ministero per 1) riavvicinare i lavoratori al settore e 2) combattere il fenomeno della concorrenza sleale?
Condivido pienamente quando sostenuto dalla Federazione sul mestiere del cuoco. Non solo è fisicamente impegnativo ma limita anche il tempo che socialmente impieghiamo per il nostro benessere e le interazioni. Per questo in più occasioni ho manifestato il mio appoggio al settore e condivido la proposta per il riconoscimento di questo lavoro come usurante e sono disponibile sin da ora, appena avremo la nuova compagine governativa, a riprendere il filo del discorso interrotto a causa degli ultimi accadimenti. Come dicevo prima servono misure che riavvicinino al mondo del lavoro e non diventino invece un deterrente per trovare un’occupazione. Il lavoro rappresenta una componente importante della nostra vita, non solo perché è elemento su cui si fonda la nostra Repubblica, ma anche perché permette all’uomo di realizzarsi e contribuire al benessere sociale e collettivo e alla crescita del paese.
Per combattere il fenomeno della concorrenza sleale qualcuno parla di salario minimo. Nulla di più errato e deleterio per il mondo del lavoro. Il salario minimo in Italia non serve, ma vanno necessariamente fatti dei distinguo tra chi è proiettato verso le elezioni, brandendo slogan da prima repubblica, e chi invece guarda al futuro dei nostri figli e delle prossime generazioni.
In Italia dobbiamo agire su tre livelli: occupazionale, formativo e quello che riguarda il ricambio generazionale. Il potere di acquisto delle famiglie vacilla sempre di più, a causa anche di fattori esogeni e chiaramente non prevedibili, come la pandemia e la guerra. Il livello di precarietà è cresciuto e peggiorato a tal punto da mettere a dura prova il tessuto economico produttivo del nostro paese. Nonostante i lievi segnali di ripresa, serve rimboccarsi le maniche e mettere in atto misure scudo che proteggano il lavoro, la nostra capacità imprenditoriale e i nostri asset.
La Direttiva europea (da tanti letta e da pochi capita) non impone un salario minimo legale a tutti gli Stati Membri. In Italia, peraltro, non ne avremmo comunque bisogno perché abbiamo un sistema di contrattazione collettiva talmente sviluppato che già risponde ai criteri che ci chiede l’UE. Da noi la copertura della contrattazione collettiva, infatti, va ben oltre quell’80% che ci chiede Bruxelles. Il salario minimo è lo strumento da usare nei Paesi dove la contrattazione è limitata; dove invece è diffusa, va chiaramente rafforzata. Il salario minimo per legge non va bene perché è contro la nostra storia culturale di relazione industriali e non può essere moderato ma deve corrispondere alla produttività. Servono, inoltre, defiscalizzazione ed incentivi per chi assume. Se il costo del lavoro per un’azienda è alto, è necessario diminuirlo. Un modo concreto per far sì che vi siano più assunzioni è abbassare i costi che l’azienda affronta per ogni singolo dipendente.
Crediamo che incentivando la formazione di dipendenti specializzati e nuove figure in grado di dare maggiori garanzie per la sicurezza nei posti di lavoro, si possa cambiare completamente il paradigma degli ultimi anni.
Vanno, infatti, create le condizioni migliori per trovare la spinta propositiva che acceleri il nostro processo di sviluppo e una riforma che permetta a tanti dipendenti di uscire dal mondo del lavoro ad una età idonea e ragionevole.
Lo scorso anno la delegazione di Tni Italia le ha sottoposto la possibilità di reintrodurre i buoni lavoro da 10 euro lordi, i cosiddetti voucher aboliti nel 2018 dal governo Gentiloni per pagare le prestazioni accessorie (come il lavoro di un cameriere durante il fine settimana).
Pensa che la loro reintroduzione possa rappresentare una soluzione per andare incontro alle esigenze dei ristoratori?
Non solo lo penso ma ne sono convinta. I voucher sono uno strumento di flessibilità indispensabile per tanti settori tra cui il vostro, ma che la sinistra nega per mera ideologia.
Con i giusti criteri un loro utilizzo potrebbe risultare uno strumento rapido ed efficace per dare risposte immediate e risolve molti problemi occupazionali. Chi non si rende conto di questo non conosce i reali bisogni di certi comparti, che necessitano di maggior forza lavoro durante specifici periodi limitati nel corso dell’anno.
In una recente intervista, ha affrontato lo scottante tema del caro energia, affermando come l’aumento del costo dell’energia stia mettendo in crisi la nostra stabilità economica, il sistema imprenditoriale e tutto l’indotto occupazionale, e di come sia arrivato il momento di interventi strutturali a sostegno delle imprese. In questo scenario, il settore della ristorazione appare sicuramente tra i più vessati: dal Covid, al caro energia fino al rincaro dei prezzi delle materie prime per via del conflitto russo-ucraino.
Sono previsti interventi specifici per questa categoria? Se sì, in che modo si concretizzano?
Siamo in una situazione drammatica e per questo dobbiamo intervenire tempestivamente per salvare il tessuto economico produttivo del nostro Paese. Così anche il lavoro e tutti i livelli occupazionali.
Serve inoltre una programmazione a medio lungo termine che abbia un approccio pragmatico. Dobbiamo abbandonare i preconcetti ideologici che tanto male hanno fatto al nostro paese.
Oltre alle misure prorogate con il Dl Aiuti Bis serve uno scontamento di bilancio di almeno 30 miliardi per evitare di pagarne 100 tra un mese tra cassa integrazione e disoccupazione. Troppi dimenticano che se un’azienda chiude non verserà più imposte nelle casse dello stato.
Tra i provvedimenti immediati è indispensabile il disaccoppiamento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili e quella prodotta da Gas, la sospensione del meccanismo degli ETS che consiste nel pagamento dell’emissione della CO2 accollato alle imprese e che incide sul prezzo dell’energia elettrica per il 30%.