di Alex Revelli Sorini e Susanna Cutini proff. Università Telematica San Raffaele Roma
Diversi studiosi di storia della gastronomia ricordano quanta importanza abbia la cucina nella costruzione della nostra italianità. Un modello aperto e “democratico”, frutto di tradizioni diverse e dunque capace di assimilare il nuovo, perché l’Italia è un paese capace di digerire la diversità fino a trasformarla nel proprio carattere tipico (come accadde con la pasta di forma allungata importata in età medievale dalla cultura musulmana e successivamente declinata con pomodoro e peperoncino). Insomma in cucina più che altrove si impara la tolleranza.
Ma esiste una cucina italiana o è preferibile parlare di mille cucine locali? In realtà le due cose non si escludono a vicenda. Il segreto sta nel cogliere in questa miriade di ricette diversificate una trama di passaggi che investono le pietanze, le persone e le tradizioni, ed è una trama indiscutibilmente italiana, percepita come tale dai suoi utilizzatori. In fondo la ricchezza della nostra gastronomia è data proprio da questa disseminazione sul territorio del patrimonio culinario. Non abbiamo piatti più gustosi rispetto a quelli degli altri paesi né vantiamo un maggior numero di pietanze. La nostra forza è che ne abbiamo dappertutto.
Una rete di saperi diffusa, sia sul piano orizzontale del territorio che su quello verticale delle appartenenze sociali. I piatti popolari compaiono nelle tavole dei signori che a loro volta agiscono da modello per i ceti inferiori, e dunque nello stile gastronomico italiano – a differenza di altre realtà europee – si riconosce l’intera comunità, senza esclusioni.
Ciò che distingue l’arte culinaria da altri fattori fondamentali dell’identità nazionale, è che in cucina un modello non prevale mai sugli altri. Se nella storia della lingua a un certo punto è riuscito a imporsi un solo dialetto, guadagnandosi la qualifica di italiano grazie al prestigio di Dante, Boccaccio e Petrarca, la storia della cucina non ha conosciuto né Dante né l’Accademia della Crusca. Un sistema paritario, che non avrà mai dei rigidi codificatori ma solo straordinarie personalità come Bartolomeo Scappi o Pellegrino Artusi, che si sono limitate a confrontare e a mettere in rete le diverse tradizioni locali.