Lode alla convivialità

di Alex Revelli Sorini e Susanna Cutini proff. Università San Raffaele Roma

Ma cosa vuoi dire, qui, “convivialità”? Vuol dire “mangiare insieme”, come in un convivio/banchetto; ma vuol dire soprattutto “convivere”, vivere insieme qualcosa, condividerla. 

C’è chi dice che “non c’è gusto ad andare al ristorante da soli”: che cosa intende? In genere vuole dire che parte del piacere di mangiare un piatto è commentarlo con qualcuno e parlarne, magari anche il giorno dopo. Capita spesso, quando si è innamorati, che si voglia far condividere all’amato le proprie letture preferite. Perché? Perché si vuole che il piacere che ne deriva sia condiviso e – di nuovo – si vuole poterne parlare insieme, “metterle in mezzo”. Potremmo fare tantissimi altri esempi: il punto è che spesso un’esperienza piacevole diventa ancora più piacevole se viene condivisa. 

Sembrerebbe così ovvio, così universalmente noto, da non richiedere parole né per spiegarlo né per insegnarlo: ci piacerebbe poter credere che la convivialità non debba essere insegnata, che “venga spontanea”; sospettiamo, invece, che in un mondo in cui il soggetto principale è singolare (io) sia importante sottolinearne il valore e mostrarne l’importanza. 

Ma a cosa serve “imparare la convivialità”? Una risposta semplice (ma fondamentale) è: a essere più felici. Se, infatti, il piacere condiviso risulta più piacevole, imparare a condividerlo vuol dire imparare a moltiplicarlo. 

Un aneddoto storico racconta di un curioso esperimento voluto da Federico II di Svevia (XIII sec.): alla ricerca della lingua adamitica, l’imperatore radunò un gruppo di trovatelli che fece allevare in un comodo appartamento imperiale da nutrici fidate, ordinando tuttavia che in presenza dei bambini nessuno proferisse parola, di modo che i piccoli tornassero spontaneamente a parlare la lingua primigenia dell’umanità. Così conclude il cronista dell’epoca: «Ma lavorò invano perché tutti i bambini morirono; non potevano infatti vivere senza le moine, i visi gioiosi, le dolci parole delle loro nutrici». Al di là dell’alone di leggenda, c’è una verità profonda nell’osservazione del cronista. 

Esiste una mortalità infantile a noi leggibile, dovuta a insufficienza materiale, a forme d’indigenza, al limite naturale: sono le morti per malattia, per fame, per freddo, per incidenti. Ce n’è poi però anche un’altra, meno ovvia, che colpisce in situazioni dove le condizioni materiali sono sufficienti, o perfino buone: neonati ben accuditi dal punto di vista fisico, ma trascurati dal punto di vista relazionale, crescono poco e, nei casi peggiori, sembrano addirittura lasciarsi morire. 

Da sempre mangiare insieme è un momento importante della vita familiare e sociale, un momento in cui il piacere di mangiare cose buone si fonde con quello di commentare insieme questo piacere. Insomma non andiamo mai al ristorante da soli.

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